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This is Cosmos Country

Pagina italiana sulla squadra di "soccer" americana più famosa al mondo: I New York Cosmos

Gli anni difficili del soccer Usa (seconda puntata)

Seconda puntata: La mancata americanizzazione

 

La seconda puntata del nostro viaggio negli anni difficili del soccer Usa tocca l’argomento dell’americanizzazione nella North American Soccer League. I calciatori americani al tempo salvo rare eccezioni erano relegati in panchina e non considerati dai propri allenatori per via del consistente numero di stelle straniere ma anche giocatori inglesi di seconda e terza divisione che affollavano i ranghi delle squadre di allora. Una delle ragioni del fallimento della NASL fu proprio la mancata americanizzazione annunciata nel 1978 e che sarebbe dovuta avvenire in modo graduale ma nel 1980, durante i primi sinistri scricchiolii gli alti papaveri della lega non vollero passare da due a tre il numero di americani obbligatori in campo, regola che se applicata come promesso avrebbe aumentato progressivamente gli americani in campo al ritmo di un’unità in più alla volta avrebbe forse salvato la lega e forse fatto qualificare gli Usa prima di Italia ’90. In ogni caso questo articolo intitolato “Tea Party Brewing in the Nasl” edito il 6 Agosto 1979 da Sports Illustrated scritto da J.D. Reed mostra uno spaccato di un’epoca che oggi sembra appartenere ad un altro mondo in stridente contrasto con gli anni odierni dove giocatori americani giocano nei maggiori campionati europei e la nazionale Usa oramai è un ospite fisso alle qualificazioni finali della Coppa del Mondo

 

Il passaggio era quello che ogni calciatore vorrebbe ricevere, cross dalle 40 iarde liscio e pulito dal piede del leggendario Franz Beckenbauer. I Cosmos, in tournée in Sudamerica si stavano allenando nervosamente in un campo molto alla buona in Argentina sotto il caldo sole di Novembre il giorno dopo una brutta sconfitta. La palla è scesa roteando dal sole fino alla parte ombrata del campo vicino alle linee di delimitazione. Anche il Kaiser si era fermato a guardare. Ad aspettare il passaggio, senza nessuno ad infastidirlo, c’era Ricky Davis, biondo californiano di 19 anni che ha lasciato l’università di Santa Clara nel suo anno da matricola per firmare un contratto coi Cosmos. Davis, che probabilmente è il miglior giocatore americano della NASL, si era mosso troppo velocemente per ricevere il passaggio, ha perso la coordinazione e quando il suo piede ha incontrato la palla ha tirato nel modo sbagliato ed il passaggio perfetto è terminato fuori rimbalzando. Beckenbauer è salito su tutte le furie urlando a Ray Klivecka, l’allenatore in seconda che stava supervisionando l’allenamento :”Allora è questo il futuro dell’America? E’ questo quello per cui state aspettando? Scordatevelo! Vendete la squadra! E’ una buffonata!”. Giudizi come questi hanno ulteriormente amareggiato i calciatori americani riguardo la loro situazione. Da una parte, la lamentela di Beckenbauer, che gli americani non sono ancora abbastanza abili per giocare professionalmente a buoni livelli è veritiera, dall’altra gli infelici atleti autoctoni argomentano che solo giocando possono migliorare e che è proprio quello che finora sta mancando loro. Anche se la NASL non è nata per far crescere gli americani, dall’inizio la lega ha stabilito regole che un numero di americani canadesi o naturalizzati, al momento 2, debbano partire titolari, e nella rosa 6 dei 17 giocatori devono essere americani. L’anno prossimo il numero di americani in campo salirà a 3 ma in rosa resterà fermo a 6.

 

“NASL non vuol dire North American Soccer League ma Non American Soccer League”, afferma un rassegnato Nick Owcharuk, nativo di Chicago e terzo portiere dei Tulsa Roughnecks. Le sue lamentele vengono provate dai fatti. Durante una recente giornata di campionato con tutti i team della NASL in campo solo 55 dei 264 titolari scesi in campo erano americani. Sebbene 7 in più del minimo obbligatorio 21 dei 55 erano canandesi e 10 erano cittadini naturalizzati tra i quali il “Tesoro Nazionale” italiano Giorgio Chinaglia. In campo erano presenti 24 americani, la media di uno per squadra

 

“L’americanizzazione del soccer è una bufala!”, tuona Dan Counce, nativo di St Louis al sesto anno a Toronto come attaccante “Invece di essere il minimo, i due uomini in campo sono diventati il limite. Il resto di noi sta in panchina e mette assieme più schegge che minuti giocati”.

 

Dennis Tueart, una brillante ala inglese al secondo anno coi Cosmos va al cuore del problema quando afferma :”Ho cominciato a giocare a calcio quando avevo tre anni e non ho giocato ad altro. Gli americani della NASL hanno cominciato a tredici anni o giù di lì, non puoi lasciarmi dieci anni basilari di abilità che son diventate automatismi ed abitudini fisiche ed aspettarti di battermi in campo. Gli americani devono cominciare prima a giocare a calcio, e sebbene i giovani dovrebbero diventare molto bravi nei prossimi anni per gli attuali professionisti è una guerra che è destinata a mietere vittime. Ma se spingete sull’americanizzazione troppo in fretta l’intero sistema sportivo potrebbe finire. Chi mai pagherebbe per vedere partite di livello inferiore?”.

 

Ironicamente il problema si è acuito con l’arrivo di Pélé nel 1975. La missione di Pélé era quella di evangelizzare il maggiore sport del mondo nel più grande paese dello sport professionista. Quando ci riuscì, quando il soccer ha cominciato a essere redditizio, altre squadre aprirono i portafogli per le star europee e sudamericani, così il livello delle partite salì, e simultaneamente il numero di americani in campo scese vistosamente.

 

Rinus Michels, famoso allenatore olandese ora in forza ai Los Angeles Aztecs dice a riguardo :”Il livello di calciatori di importazione ora è così altro che non oserei iniziare con più dei due americani imposti, altrimenti non sarei competitivo”. Al Miller, allenatore dei Dallas Tornado, nativo della Pennsylvania che ha allenato il college di Hartwick ad Oneonta, N.Y., era famoso per impiegare molti giocatori americani, ma ora dice :”Credo fossi l’unico che ha provato a lavorare con molti americani nella formazione. Gli stranieri hanno dimostrato di essere troppo superiori. Al momento sto sventolando la bandiera tedesca”.

 

La spiegazione razionale non fa sentire meglio gli americani. Billy Gazonas, vincitore dell’Hermann Trophy 1977 come il miglior giocatore di college della nazione è un grintoso centrocampista dei Tulsa Roughnecks. In una squadra dove il 60% dei giocatori sono inglesi e lo è anche l’allenatore, gioca occasionalmente. “Quando ci alleniamo, siamo i titolari inglesi contro le riserve americane” racconta :”Noi americani prendiamo gli allenamenti molto seriamente e spesso battiamo i britannici. Ho atterrato un giocatore britannico quando stavamo vincendo di due goal durante un allenamento e quando eravamo entrambi a terra gli ho detto “E’ come nel 1950 amico mio”. Gazonas si riferiva ad un fatto clamoroso, la vittoria per 1-0 della nazionale Usa sulla Grande Inghilterra avvenuta al primo turno della Coppa del Mondo 1950. Gli Usa furono eliminati al primo turno e non si sono più qualificati da allora.

 

L’animosità di Gazonas va oltre i compagni di squadra :”Gli allenatori inglesi prediligono lo stile palla lunga e pedalare, ma qui i migliori college insegnano a giocare con passaggi corti palla a terra, così loro non ci capiscono e noi non vogliamo giocare alla loro maniera”.

L’allenatore di Gazonas, Alan Hinton risponde prontamente :”Sono gli americani che devono adattarsi al nostro stile, d’altronde siamo noi che comandiamo in questo sport qui, o no?”.

 

Nonostante gli allenatori della NASL vengano da 8 paesi diversi tra cui due americani la lega è prevalentemente britannica. Un allenatore inglese, Ken Furphy, sulla panchina di Detroit, ha coniato il più altro insulto transatlantico quando ha urlato ai suoi titolari inglesi dopo una brutta partita :”Avete giocato così male che tanto valeva mandare in campo gli americani!”.

 

Forse il più rumoroso e capace avvocato della causa dell’americanizzazione è Bobby Smith, un duro difensore americano coi capelli all’indietro che era in panchina lo scorso anno coi Cosmos e quest’anno è titolare a San Diego :”Chi vuole gli americani nella NASL?” Si chiede battendo il palmo di una mano col pugno :”I proprietari? Non sanno guardare fuori dal proprio bagno, per dirla in maniera educata! Gli allenatori? Hanno così paura di perdere che non ci daranno una possibilità. Gli stranieri? A parte poche eccezioni come Chinaglia e Rodney Marsh (attaccante inglese di Tampa Bay) chi aiuterà gli americani? I vecchi calciatori che erano i migliori in Europa e Sudamerica non si sentono più sicuri di partire titolari. Il risultato è che veniamo bistrattati a casa nostra, siamo la pulce sull’elefante. Ci continuano a dire di aspettare, di aspettare il nostro momento. Bene, abbiamo già ascoltato questa canzone, e vogliamo cominciare da ora”.

 

Ma le cose non stanno andando così. Chinaglia rimane cauto :”Non si può affrettare la cosa, la strada per gli americani è ancora lunga. I portieri americani sono forse tra i migliori del mondo perché gli americani hanno grande coordinazione occhio-mano. I difensori sono bravi, forti e coraggiosi, perché difendere è un ruolo relativamente facile, ma a centrocampo, dove devi far girare la palla e leggere il flusso della partita gli americani non sono così irresistibili ed in attacco dove scrivi la storia della partita ed hai bisogno di molta furbizia ed acume, gli americani non sono all’altezza”.

 

Nella cura e lo sviluppo dei giovani talenti nostrani nessuna squadra ha fatto così tanto come i Cosmos di Chinaglia. Hanno mandato le riserve americane in Scozia, Germania ed Italia ad allenarsi con le riserve di squadre di prima e seconda divisione, ma per gli americani non è lo stesso di una partita di campionato. Spiega Davis :”Ti dicono che allenarti con Beckenbauer e Chinaglia farà di te un giocatore migliore, ma non è così. Il trucco è riuscire a ottenere un posto da titolare e tenerselo. Ho giocato come centravanti tutta la vita, ma qui sono un centrocampista e sono contento di partire titolare”.

 

A Giugno i Cosmos hanno battuto il Coventry City, squadra di prima divisione inglese, 3-1. Per via di infortuni e bisogno di riposo di alcuni fuoriclasse, sono scesi in campo otto americani provando secondo il nativo di Long Island Ron Anastasio che “Nonostante non saremo i migliori giocatori del mondo siamo comunque capaci di giocare a livelli internazionali. Ci ha aiutato per la nostra autostima più di quanto abbia fatto la NASL per noi in questi anni”.

 

L’autostima tra gli americani è anche più altra ad Houston, in testa alla Central Division della American Conference. Kyle Rote Jr, l’americano più reclamizzato durante i primi difficili anni della NASL racconta :”Abbiamo cominciato con cinque americani in campo, questo prova che è possibile”. Rote vorrebbe un limite di cinque stranieri in campo :”Così vedremmo quanto sono veramente bravi questi allenatori stranieri”.

 

Ma la riluttanza ad utilizzare giocatori autoctoni resta, anche per un allenatore vicino alla loro causa come Miller :”Prendi un ragazzino che è cresciuto con sette paia di scarpe da calcio e la mamma che lo accompagna in auto agli allenamenti, quando le cose si fanno realmente difficili ti lascerà da solo”. Conclude con: “Gli stranieri giocano col sangue agli occhi, ti puoi fidare di loro”

 

Le riserve americane dei Cosmos si sono auto soprannominati i predatori del lunedì perché si allenano nel giorno in cui i titolari si riposano. Nello spogliatoio hanno la loro fila di armadietti chiamata American Alley. Ma la separazione va oltre. Racconta Bobby Smith :”Quando i Cosmos organizzano una festa ci sono Chinaglia ed i continentali da una parte, i britannici dall’altra e Carlos Alberto, Marinho e i sudamericani dall’altra ancora. Gli americani stanno seduti al bar esclusi da tutti, non è una squadra”.

Ma è come la Non American Soccer League.

 

 

Fine seconda puntata.

il difensore Bobby Smith, uno dei pochi americani nella NASL di allora

il difensore Bobby Smith, uno dei pochi americani nella NASL di allora

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